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La maledizione delle fonti fossili

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Il testo che segue è la trascrizione, con qualche aggiustamento, della mia relazione introduttiva al Convegno organizzato dal Circolo Legambiente di Frosinone dal titolo “La maledizione delle fonti fossili – Clima, guerre, tensioni geopolitiche, autoritarismi, violazione dei diritti umani: perché dobbiamo lasciare sottoterra petrolio, gas e carbone”, che si è tenuto a Frosinone il 7 febbraio 2024.

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Nel 2015 aprii un blog, si chiama Stop Fonti Fossili! Quell’anno vide l’inizio della mia personale terza fase di impegno ambientalista: avevo ripreso ad approfondire questioni come il clima, le rinnovabili, i limiti dello sviluppo, e con i miei post sentivo il bisogno di condividere elucubrazioni, angosce e speranze. Nove anni non sono poi molti, e infatti praticamente tutto quello che diremo stasera riguardo al male che un sistema energetico fondato su petrolio, gas e carbone sta apportando al pianeta e alla vita delle persone era già ben noto. Eppure lo scenario è molto cambiato da allora, per molti versi radicalmente cambiato. Nove anni fa il conglomerato di poteri ancorati alla dittatura delle fonti fossili era ben saldo e poteva permettersi di dileggiare i sognatori di un mondo nuovo, un mondo che metta al bando i combustibili che avevano reso possibile la rivoluzione industriale e segnato una svolta di progresso nella storia dell’umanità ma che oggi ci stanno conducendo nel baratro. Alla stragrande maggioranza delle persone le rinnovabili sembravano allora troppo discontinue, inaffidabili, non implementabili alla scala necessaria a scalzare le fossili.

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Ebbene, sembra passato un secolo. L’accelerazione esponenziale di solare, eolico e sistemi di accumulo, lo straordinario progresso tecnologico nei settori delle rinnovabili e dell’economia circolare e il crollo dei prezzi di moduli FV e batterie al litio ha scombinato piani e guastato le feste del vecchio potere fossile. La reazione è stata via via più rabbiosa. Agli ingredienti tradizionali delle attività di lobbying, della corruzione, della commistione tra economia, finanza e politica per resistere alla incombente rivoluzione energetica si sono aggiunte abili campagne di disinformazione condite da fake news; si sono aggiunte consunte suggestioni spacciate per soluzioni salvifiche, come il nucleare – legato non a caso agli stessi potentati anti-rinnovabili e allo stesso mondo militarista e guerrafondaio che abbiamo visto in azione dalla guerra fredda in poi. Sono state fatte passare narrazioni tossiche, come l’idea ingannevole del gas come combustibile ponte verso le rinnovabili, occultando abilmente come il business dei gasdotti sia di ostacolo alla transizione, perché ci lega mani e piedi al consumo di gas per tempi non compatibili con la necessaria rapidità della decarbonizzazione.

E naturalmente, si è fatto ricorso come non mai al greenwashing, il cui campione in Italia è Eni, come stiamo vedendo in questi giorni di monocultura sanremese: senza pudore né vergogna, la partecipata statale colosso delle fossili, da sempre amica di tutti i governi, sta facendo bere agli italiani un elisir velenoso che capovolge la realtà, mostrando nei suoi spot pannelli solari al posto di piattaforme petrolifere e allegre rock band al posto delle raffinerie. Bene ha fatto Legambiente a denunciare l’inganno del cane a sei zampe che continua massicciamente ad investire i suoi enormi profitti su nuovi progetti estrattivi lasciando alle rinnovabili le briciole.

Oggi però la musica è cambiata, e non mi riferisco a quella di Sanremo. La forza dirompente di sole e vento sta nelle economie di scala che stanno rendendo le nuove rinnovabili competitive e attrattive per chiunque, a partire dagli investitori. Ecco perché il comparto oil & gas è all’angolo. Loro lo sanno bene, del resto: fu proprio un ministro saudita del petrolio ad affermare che “l’età della pietra non è finita perché finirono le pietre”, e dunque “non bisogna aspettare che finisca il petrolio per far finire l’età del petrolio”. Big Oil è all’angolo, dicevo, ma non è ancora un pugile suonato, e state certi che prima di abbandonare il campo farà di tutto per non soccombere, magari cercando di convincerci che cambiamento climatico, guerre, autoritarismi, violazione dei diritti umani sono degli inevitabili ma in fin dei conti sopportabili effetti collaterali delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità.

E invece continuare ad estrarre petrolio e gas dal sottosuolo è e sarà sempre di più una tragedia collettiva che si ripercuoterà pesantemente sulle generazioni future, come cercheremo di spiegare stasera. Ecco perché la consapevolezza dell’inganno, del gioco sporco in atto a tutti i livelli è essenziale, ed ecco in definitiva il perché di questo convegno.

Malediciamo le fonti fossili anzitutto perché hanno alterato il clima terrestre, e preghiamo perché il danno non sia irreversibile; le malediciamo perché continuano ad alimentare conflitti a bassa, media e alta intensità guarda caso proprio nelle aree del mondo in cui quelle risorse sono concentrate, con ripercussioni sull’intero pianeta; le malediciamo perché non si contano più le storie di devastazioni ambientali, violazioni dei diritti, migrazioni forzate e persino pulizie etniche indotte direttamente o indirettamente dallo sfruttamento di petrolio e gas; le malediciamo perché sono generatrici di instabilità geopolitica, insicurezza, tensioni che allontanano la pace e spingono al riarmo, sottraendo risorse vitali a ciò su cui varrebbe davvero la pena di investire: salute, istruzione, welfare.

E noi qui, nella martoriata Valle del Sacco, così come nella ricca Pianura Padana, abbiamo una ragione in più per maledire le fonti fossili, perché non dobbiamo dimenticare che la CO2 climalterante generata dalla combustione di carburanti fossili (non solo quelli, certo, ci sono anche le biomasse) va sempre a braccetto con polveri sottili, ossidi di azoto e altri microinquinanti che avvelenano l’aria che respiriamo. Se la politica, le amministrazioni locali capissero questo, non si limiterebbero a qualche pannicello caldo per tamponare le emergenze cercando di limitare gli sforamenti dei limiti di legge per la qualità dell’aria, ma guarderebbero oltre lavorando per l’unica vera soluzione al problema, quella che passa per la transizione energetica e l’elettrificazione di trasporti e sistemi di riscaldamento.

Torniamo ora agli scenari internazionali: è necessario farlo perché gli italiani devono uscire da un certo provincialismo che relega la politica estera ai margini del dibattito pubblico. Con l’aggressione russa all’Ucraina di due anni fa abbiamo scoperto di essere sotto costante ricatto dei paesi produttori, dittature, petrocrazie, regimi illiberali e violenti da mettere al bando della comunità internazionale, verso i quali invece siamo spesso costretti a chiudere tutti e due gli occhi per non vedere le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale da essi commesse e a tapparci le orecchie per non sentire i pianti disperati di profughi o di persone che hanno subito violenze. Perché si sa, gli affari sono affari e la sicurezza energetica nazionale da almeno cinquant’anni è uno dei pilastri della politica estera, molto più dell’isolamento diplomatico dei regimi autoritari. Certo, con Putin è stato diverso: in quel caso le logiche dettate dagli schieramenti internazionali e dalle alleanze ci hanno imposto giustamente di fare a meno del gas di Mosca. Ma molti degli spacciatori alternativi a cui l’Europa si è rivolta per sfuggire alla dipendenza dal gas russo sono retti da regimi non meno autoritari o spietati di quello di Mosca, eppure nessuno ha mosso un dito. Cito ad esempio il caso dell’Azerbaigian, il paese di provenienza del gas che arriva nelle coste pugliesi con il gasdotto TAP: in Italia nessuno sa che lo scorso settembre oltre 100.000 persone dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh sono state costrette a fuggire in seguito a un ingiustificato attacco militare azero. A seguito di questa gravissima aggressione l’europarlamento si era espresso con un documento di condanna dichiarando che “l’attuale situazione equivale a una pulizia etnica”. Eppure nulla è successo, e l’Italia continua ad importare una quota rilevante del gas fossile di cui ha bisogno dall’Azerbaijan. Potrei citare altri esempi di amicizie ambigue e interessate dell’Italia con regimi impresentabili: penso all’Algeria, al Qatar e alle altre monarchie assolute del Golfo Persico, che grazie ai petrodollari sono in grado di inondare di denaro tutto ciò che piace alla gente (lo vediamo con il calcio) con l’effetto di narcotizzare ogni spinta al cambiamento.

C’è poi il capitolo insicurezza degli approvvigionamenti provenienti da quella polveriera che è il Medio Oriente, una delle cause principali della volatilità dei mercati e ancora oggi uno dei fattori principali dell’instabilità economica e del rischio sistemico che corriamo affidandoci alle fonti fossili. Il conflitto israelo-palestinese, l’aggressione di Hamas del 7 ottobre e la distruzione sistematica pianificata della Striscia di Gaza messa in atto da Israele che ne è seguita hanno riacceso una miccia mai effettivamente spenta, che minaccia adesso di detonare lasciando sul tappeto solo macerie, in tutti i sensi. Le quotazioni di petrolio e gas sono oggi in balia del rischio di un’escalation del conflitto, e già oggi risentono degli attacchi dei ribelli Houthi nel Mar Rosso alle navi mercantili, particolarmente le petroliere e le metaniere: ad essere messa a repentaglio è l’Europa intera, ma sono i paesi mediterranei quelli più vulnerabili. I cargo di GNL qatarini destinati al terminale Adriatico, ad esempio, sono spesso costretti ad evitare il transito nel Canale di Suez, e questo vuol dire dover scegliere rotte più lunghe e costose, con riflessi inevitabili sui prezzi, o addirittura a dover cancellare le spedizioni. Insomma, la nostra economia e la possibilità per le famiglie di arrivare alla fine del mese continuano a dipendere pesantemente da fattori che come sistema Paese non possiamo controllare.

L’attualità ci porta poi ad affrontare il tema del controverso Piano Mattei per l’Africa, per molti versi ancora indefinito nei contenuti. Secondo le intenzioni del governo, il Piano rappresenterà una piattaforma di cooperazione con i Paesi africani basata su un approccio paritario, non predatorio e non caritatevole, con l’obiettivo di contribuire alla crescita dell’Africa grazie alle proprie risorse attraverso progetti e strategie innovativi. Queste le belle parole. Peccato che, a giudicare da quanto emerso nel corso del summit Italia-Africa del 29 gennaio, di innovativo in termini di strategie energetiche sembra esserci ben poco. Come è stato ben evidenziato dal think tank ECCO Climate, non sono emerse priorità chiare in materia di energia legate agli obiettivi di decarbonizzazione, né una strategia definita su come supportare il continente africano nell’uscita dalle fonti fossili. Anzi, il Piano rischia di generare nuovi partenariati energetici basati proprio sulle fonti fossili. L’Italia come hub del gas, e del gas algerino, in buona sostanza, anziché hub delle rinnovabili. Più in generale, scrive ancora ECCO Climate, “sembra mancare la consapevolezza della centralità della dimensione climatica come parte integrante e non derubricabile delle politiche che l’Italia porta avanti”. Insomma, ancora una volta, lo sfruttamento delle fossili appare l’ingombrante elefante nella stanza che non si riesce ad allontanare.

Ecco dunque l’ennesimo motivo per maledire le fonti fossili. Ma attenzione: gli ambientalisti maledicono le fonti fossili ma non certo i poveri cristi che ne fanno uso per vivere, neanche se fanno parte della schiera dei frenatori della transizione ecologica o addirittura dei negazionisti climatici. Anzi, fatemi dire, noi ambientalisti siamo così buoni da essere felici di sapere che le tasche delle persone, comprese di quelle che non ci amano, tenderanno a non essere più svuotate dalle bollette energetiche e dal caro-benzina, e questo grazie da una parte alla sempre maggiore penetrazione delle rinnovabili, che già oggi fungono da calmiere verso le quotazioni di petrolio e gas, e dall’altra alla rivoluzione della mobilità elettrica. Sembra controintuitivo, ma non lo è affatto. È il mercato, bellezza: al netto delle oscillazioni dovute ad altri fattori, una minor richiesta internazionale di greggio indotta da un parco auto sempre più elettrificato farà inevitabilmente abbassare il prezzo del petrolio, facendo così felici gli amanti del “naftone”, ovvero esattamente coloro che le auto elettriche proprio non le digeriscono. Allo stesso modo, man mano che le pompe di calore alimentate dall’energia eolica sostituiranno le caldaie a gas, le quotazioni del metano alla borsa di Amsterdam (quelle che hanno prodotto lo sconquasso economico che sappiamo nei tragici mesi successivi allo scoppio del conflitto in Ucraina) non potranno che scendere a causa della minore domanda. E questo, badate, sta già succedendo. Per il gas, peraltro, paradosso fra i paradossi, sono anche gli inverni sempre più miti indotti dalla crisi climatica a tenere alti gli stoccaggi e a calmierare i prezzi. Insomma, mi chiedo e vi chiedo: non sarebbe ora che la massa di persone inconsapevolmente prone alle narrazioni di regime e alle fake news che circolano sui social la smettessero di prendersela con gli ambientalisti che spingono per accelerare la transizione verso le energie pulite? Non sarebbe un tantino più giusto che invece ci ringraziassero??

È dunque di tutto questo che parleremo stasera: lo faremo grazie al contributo di quattro relatori il cui bagaglio è fatto di qualità, competenze e passione, che ringrazio di cuore per aver accettato il mio invito talvolta ai limiti dello stalkeraggio. Sarà Marina Testa a presentare i nostri ospiti, ma prima di concludere e dare la parola a Mariagrazia Midulla, Paolo Sellari, Ferdinando Cotugno e Alfio Nicotra, lasciatemi fare una breve postilla sulla questione climatica, che chi mi conosce sa essere il mio chiodo fisso.

Come saprete, il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato, ma a questo primato se ne accompagnano altri meno noti, tutti indicatori di un’accelerazione del riscaldamento globale. L’aumento della temperatura superficiale degli oceani o la contrazione delle calotte glaciali, ad esempio. Dobbiamo preoccuparci? Onestamente, sì. Mentirei se tentassi di dissimulare o minimizzare. Ma il nodo in fondo non è questo, perché chi più chi meno siamo tutti preoccupati per il futuro che ci aspetta: il nodo è convogliare la preoccupazione verso scelte consapevoli, verso un’apertura autentica al cambiamento che vinca le resistenze, verso il contrasto esplicito, dichiarato nei confronti di chi frena o rema in direzione contraria.

E poi, la madre di tutte le domande: possiamo fare qualcosa? Siamo ancora in tempo a fermare l’irreparabile? Anche qui, altrettanto onestamente, ancora una volta: sì. Siamo in tempo, perché il genere umano ha mostrato di poter fare cose straordinarie, impensabili, grazie al suo ingegno e al suo cuore. Siamo in tempo, perché gli strumenti tecnologici li abbiamo già, ed hanno la maturità che serve a velocizzare la trasformazione necessaria. Le fonti pulite di energia non sono solo desiderabili perché non alterano il clima; lo sono per mille altri motivi. Sono decentrate e democratiche, vicine a noi e quindi controllabili, affidabili, amiche, producono reddito per una moltitudine di persone e non per pochi, e una volta ammortizzato l’investimento iniziale (peraltro, sempre più abbordabile), sono gra-tu-i-te! Questa, badate, è una novità assoluta per la storia dell’umanità, di cui ancora non ci rendiamo conto appieno.

Però c’è il fattore tempo, che al punto in cui è la crisi del clima è dirimente. Chi frena, dilaziona, posticipa l’abbandono delle fonti fossili commette un errore non molto diverso da chi nega il cambiamento climatico. A dircelo è una comunità scientifica sempre più attonita e spaventata per quello che sta accadendo al clima terrestre. Quello che si prefigura nei prossimi anni è dunque una competizione agguerrita fra due atleti molto in forma, il clima sempre più caldo e le rinnovabili che corrono. Non sappiamo chi vincerà, ma sappiamo molto bene da che parte tutti noi dobbiamo stare.


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