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Apologia di attivismo (prima parte)

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L’impegno civile fa bene al mondo e a chi lo pratica: cosa aspettiamo a farne una medicina da bere a piene mani?

“L’attivismo non è più una possibilità, è l’unica opzione”. Poche volte ho trovato così illuminante uno slogan, un’affermazione che suona quasi come un manifesto politico. L’attivismo (per la mia storia è quello ambientale, ma il ragionamento vuole avere una portata più ampia) è il grimaldello che scardina le gabbie in cui vogliono rinchiudere le persone, è l’adrenalina che può destarci dalla narcosi collettiva instillata dall’istinto di sopravvivenza del sistema. L’attivismo eccita, fa innamorare, è contagioso, fonde corpi e spiriti, è il perfetto antidoto all’indolenza, e soprattutto è il vero incubo del potere. Lo dimostra l’accanimento con cui molti governi – fra cui il nostro, che in questo primeggia – tentano di reprimere le manifestazioni giovanili, spingendosi fino ad oscurarne il racconto mediatico con il fermo di polizia dei giornalisti che documentano le azioni dei militanti.

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Intendiamoci, per quanto potente l’attivismo non smuoverà mai la maggioranza silenziosa, ma non è di folle oceaniche che abbiamo bisogno: per assestare un colpo che getti nel panico le alte sfere è sufficiente una massa critica di disturbatori nonviolenti determinati a cambiare le regole e i vincitori di un gioco che non diverte più da tempo. È già successo, del resto. Le mobilitazioni di un passato non troppo lontano nell’occidente civilizzato hanno dato uno scossone degno dei libri di storia a delle società che si stavano incamminando verso una pericolosa involuzione.

Non solo. L’idea rivoluzionaria secondo cui il personale è politico ha riempito di senso le esistenze dei tanti giovani che scendevano in piazza negli anni 60 e nei decenni successivi. A ben vedere, l’apatia di cui soffriamo oggi è il risultato della risacca individualista che ne è seguita. Credo che un gran numero di millennials, se solo immaginassero la pienezza di vita che hanno sperimentato i loro padri e nonni che “hanno fatto il Sessantotto”, non dissiperebbero il loro tempo con le innumerevoli vuote futilità propalate a piene mani da un sistema che si nutre del disimpegno giovanile. 

L’attivismo non è solo l’indispensabile leva per cambiare un mondo che pretende di tenersi stretto il presente. Praticare l’attivismo nelle realtà associative è la medicina più efficace per combattere il dilagare del disagio psichico giovanile, il proliferare degli Hikikomori, l’isolamento domestico solo apparentemente mitigato dalle ore spese a scrollare lo schermo dei dispositivi elettronici. Per i meno giovani, vuol dire invece ridefinire le priorità della propria vita, allargare gli orizzonti angusti del tempo libero canonicamente inteso per scoprire mondi nuovi, debordanti di significato.

La sua assenza, di converso, non è altro che una cambiale in bianco firmata in favore del potere, una delega senza condizioni che conferisce un doppio arbitrio a governanti e amministratori pubblici: quello di non dover seguire indirizzi vincolanti predeterminati e quello di non sentire il dovere di rispondere fino in fondo delle proprie azioni e delle proprie incoerenze di comodo. Senza attivisti che fronteggiano il potere, il nobile esercizio delle dimissioni latita e il ricambio nelle posizioni apicali ristagna. Al contrario, più forte è il fiato sul collo soffiato da una moltitudine di sentinelle sveglie, estranee al teatrino politico, più facile sarà sconfiggere l’inamovibilità dei vertici.

Per di più, nelle attuali democrazie in coma in cui i vecchi partiti di massa sono stati sostituiti da ristretti comitati d’affari, può bastare un soffio per far crollare prima del tempo un sistema che lotta per sopravvivere a sé stesso. C’è una percezione crescente in questo senso, amplificata dai mille scricchiolii di una costruzione che si è fatta troppo ardita per poter resistere indenne al logoramento del tempo.

Guardandolo con la lente del corporativismo di stampo capitalista, l’attivismo può essere declassato a una forma di lobbying, che sostiene specifiche istanze in contrapposizione ad altre. Niente di più falso: semplicemente, è la gratuità a fare la differenza. Impegnarsi per una causa senza alcuna contropartita, con il solo fine di contribuire alla sua vittoria, toglie argomenti pretestuosi a chi vi si oppone e moltiplica la credibilità di chi la sostiene.

Tornando ai benefici per chi lo pratica, posso confermare per averlo sperimentato di persona che l’attivismo è una panacea per la coscienza. Non evita l’inquietudine che nasce dalle sconfitte, certo, ma la serenità interiore che si prova nel poter dire a sé stessi “io ci ho provato” non ha prezzo. Un attivista maturo potrà trovare mille modi per metabolizzare gli insuccessi delle cause su cui si è impegnato; un giovane che si butta nella mischia spinto dall’entusiasmo e non ottiene i riscontri sperati saprà invece allenarsi nella ricerca della meno effimera fra tutte le soddisfazioni, quella che richiede un investimento faticoso e che mette nel conto la possibilità di cadere per poi rialzarsi vedendo moltiplicata la propria energia.

Non ci sono manuali né tutorial che permettono di imparare come si fa cittadinanza attiva, semplicemente perché sono infinite le modalità con cui il civismo si incarna nelle persone, modellandole in modi originali, spesso inaspettati. L’attivismo è libertà creativa, ma al tempo stesso ubbidisce alle inclinazioni di ciascuno e dunque, quando è svolto all’interno di comunità organizzate che agiscono per un fine comune, è in grado di aggredire l’establishment da più fronti, con manovre a tenaglia che spiazzano e confondono l’avversario. L’esteriorità delle forme, le abilità artistiche e comunicative con cui si può dare voce e risalto a una causa sono peraltro di grande importanza per aggirare le censure dei media e per attrarre nuove potenziali reclute: l’effetto moltiplicatore che ne conseguirà non farà che irrobustire la vertenza e accrescerne le chances di vittoria.

Tuttavia, ciò che rende potenzialmente invincibile l’attivista è la visionarietà dei contenuti che veicola, lo slancio di un’utopia il cui magnetismo soffoca l’inevitabile angoscia che nasce dal timore che ciò che sogniamo non riesca a realizzarsi. In definitiva, la potenza del messaggio è commisurata all’anelito di un futuro desiderabile che è in grado di trasmettere a una moltitudine di individui confusi chiamati a vivere in un secolo che sta escogitando di tutto per esorcizzare la paura dell’indicibile.


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