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Se la spugna è da buttare

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Se faremo la nostra parte, la natura ci aiuterà. Voglio dire, se mostriamo di fare sul serio e cominciamo davvero ad invertire la rotta sul versante delle emissioni di gas climalteranti, è ragionevole aspettarsi che Gaia ci dia una mano come ha sempre fatto, ristabilendo l’omeostasi dei sistemi naturali così da assicurare un nuovo equilibrio e, in definitiva, instaurare una nuova alleanza fra Homo sapiens e la biosfera che lo sostiene.

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Questo almeno è ciò che mi piace pensare. C’è del fondamento scientifico in un tale auspicio, ma anche, lo ammetto, un forte anelito che ha dell’irrazionale, una fede affatto dissimile da quella che anima le religioni. Del resto, non si è sempre detto “aiutati, che Dio ti aiuta”?

Una cosa però è certa: la natura fino ad oggi si è fatta carico di alleviare non poco la grave ferita inferta in più di un secolo in cui l’atmosfera è diventata ricettacolo degli scarti delle attività umane. Una benevolenza preziosa, direi addirittura commovente, in risposta ad un insulto continuativo sfrontato, di una violenza inaudita, non giustificabile con la nostra indole di ex cavernicoli. Sto parlando dei due fondamentali serbatoi di carbonio che complessivamente assorbono circa la metà della CO2 di origine antropica: gli oceani e la biomassa vegetale terrestre. Due immense spugne naturali che hanno instancabilmente ripulito una porzione dei miasmi vomitati nel nome del progresso dalla nostra insaziabile specie. Come quei genitori amorevoli che fanno di tutto per nascondere le marachelle dei propri pargoli, riuscendo a mitigarne la portata. Nel caso degli oceani, si è trattato di un sacrificio vero e proprio, che la diluizione nell’incommensurabilità dei volumi in gioco non è riuscita a nascondere: la crescente acidificazione degli oceani, con tutto ciò che ne consegue per la vita marina, è infatti una misura tangibile dell’abbuffata di anidride carbonica che i mari hanno dovuto subire loro malgrado.

Diverso è il discorso riguardo al carbonio stoccato nel regno vegetale e nei suoli. Il negazionismo climatico ha sfruttato abilmente il concetto arcinoto secondo cui la CO2 è “cibo per le piante”, facendo intendere che le emissioni antropiche sarebbero tranquillamente neutralizzate da foreste sempre più estese e rigogliose. Sappiamo bene che non è così, non foss’altro perché l’aumento delle emissioni è stato accompagnato da una massiccia deforestazione dei polmoni verdi del pianeta che i governi non hanno saputo o voluto arrestare. E tuttavia, l’idea secondo cui il cambiamento climatico può essere banalmente arrestato facendo una cosa semplice e bellissima come piantare alberi è ancora molto radicata nell’opinione pubblica.

Come sempre, però, sono i numeri a dover parlare, quei freddi numeri che la scienza è chiamata a produrre e la politica a valutare. Sono riassunti ogni anno nel Global Carbon Budget, frutto del lavoro di oltre 100 scienziati da molte organizzazioni e paesi. È stato fondato dal team scientifico internazionale del Global Carbon Project per monitorare i trend delle emissioni globali di carbonio e dei pozzi di assorbimento ed è una misura chiave dei progressi verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. È ampiamente riconosciuto come il rapporto più completo del suo genere. L’ultimo di essi, pubblicato lo scorso dicembre in occasione della COP28 di Dubai, fotografa il consueto squilibrio fra emissioni e assorbimenti: delle 40,7 gigatonnellate di CO2 annue (GtCO2/y)  prodotte nel 2023, 10,3 sono state catturate dagli oceani e 13,5 dalla biosfera terrestre (leggi: vegetazione), mentre la differenza di 16,9 GtCO2/y è andata ad aumentare la concentrazione atmosferica di CO2. Il rapporto evidenzia come negli ultimi decenni i serbatoi naturali di carbonio hanno fortunatamente continuato a crescere parallelamente all’aumento delle emissioni, ma allo stesso tempo avverte che il cambiamento climatico influenzerà i processi del ciclo del carbonio in un modo che aggraverà l’aumento di CO2 nell’atmosfera.

Ed è proprio questo l’elefante nella stanza, l’elemento cruciale della sfida da comprendere appieno. Il monitoraggio continuo del rapporto tra CO2 atmosferica e pozzi di carbonio è essenziale per capire in che misura il riscaldamento globale può indebolire la capacità di stoccaggio dei sistemi naturali. Ebbene, gli ultimi dati disponibili sono di quelli che dovrebbero togliere il sonno ai decisori politici. Sto parlando di uno studio, pressoché ignorato dai media generalisti italiani, appena pubblicato da un team internazionale di ricerca. Mi ha colpito il fatto che sia stato rilanciato con grande preoccupazione sui social dal fisico dell’atmosfera Antonello Pasini, uno scienziato serio, molto poco incline al catastrofismo. Personalmente ho trovato i dati diffusi piuttosto scioccanti, gravidi di implicazioni che temo non tarderanno a venire alla luce. 

In sintesi, i numeri sembrano indicare che il gap fra emissioni antropogeniche e pozzi di carbonio si stia pericolosamente allargando, specialmente a causa della ridotta capacità di assorbimento da parte degli ecosistemi terrestri. L’analisi, focalizzata sul bilancio globale del carbonio nel 2023, si prefiggeva di dare una risposta alla seguente domanda: perché, a fronte di un incremento delle emissioni di CO2 da combustibili fossili nel 2023 di “solo” lo 0,6%  rispetto all’anno precedente, si è osservato nello stesso periodo un aumento delle concentrazioni di CO2 atmosferica del 3,37%, ovvero ben l’86% in più rispetto al 2022? O, detto banalmente: da dove viene il carbonio addizionale immesso in atmosfera? Per far tornare i conti, i ricercatori hanno impiegato modelli dinamici avanzati di monitoraggio della vegetazione globale insieme a dati satellitari, scoprendo che la vistosa anomalia dei flussi di carbonio ha essenzialmente tre cause dirette: la perdita di massa forestale nel bacino amazzonico causata dalla siccità nella seconda metà del 2023, i vasti incendi avvenuti in Canada come conseguenza delle temperature estreme estive e un declino significativo, forse attribuibile alla deforestazione e al degrado dei suoli, nel sudest asiatico. Un quadro deprimente, in cui c’è davvero poco da edulcorare, e dunque gli autori non usano mezzi termini: l’espressione usata per descrivere ciò che è accaduto è “collasso dei serbatoi di carbonio terrestri”.

Se andiamo alle cause ultime, è tutto drammaticamente chiaro: ciò a cui assistiamo è il risultato della sommatoria fra un ulteriore aumento della pressione antropica sugli ecosistemi terrestri e gli effetti del riscaldamento globale in atto. Insomma, mentre la natura, che ha mostrato di essere finora nostra alleata nella lotta ai cambiamenti climatici, continua ad essere sotto attacco, è proprio il progredire rapido del riscaldamento globale che rende tutto più difficile, costringendo l’umanità a moltiplicare gli sforzi di abbattimento delle emissioni e ad accelerare i piani di decarbonizzazione. 

In tutto questo, buone notizie ne abbiamo? O almeno, possiamo aspettarci di essere di fronte ad uno squilibrio temporaneo dei flussi di carbonio destinato a rientrare? Lo vedremo nel prossimo rapporto del Global Carbon Budget, che sarà presentato a fine anno. La speranza è duplice: per quanto riguarda gli oceani, essa è rivolta alla tenuta della loro capacità di stoccare ancora CO2 nonostante il pronunciato aumento della temperatura superficiale marina, registrato da un anno a questa parte specialmente nell’Atlantico settentrionale. Sul versante dei serbatoi terrestri, dobbiamo confidare sulla elevata variabilità interannuale della capacità di assorbimento degli ecosistemi e sul venir meno dell’effetto addizionale che il fenomeno climatico ciclico conosciuto come El Niño può aver esercitato nel 2023. Certo è che, se l’indebolimento dei pozzi naturali di carbonio si rivelerà essere strutturale e non episodico, la situazione è destinata a volgere al peggio.

Continuiamo a correre su un filo sottilissimo, quello che separa la possibilità di un rientro morbido dall’overshoot e di una stabilizzazione del clima terrestre da una accelerazione del riscaldamento globale autoalimentata impossibile da arrestare. La caldissima estate mediterranea 2024 ci ricorda che è in gioco niente di meno che la vivibilità dell’unico pianeta che abbiamo: se non si capisce questo e se i governi remano contro il cambiamento necessario, temo che dobbiamo aspettarci tempi bui in tempi brevi.


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