Il testo che segue è la trascrizione del mio intervento al convegno La strada è di tutti organizzato da FIAB Frosinone – Su2Ruote Aps, che si è tenuto a Frosinone il 30 marzo 2023.
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Il titolo del convegno è in sé un manifesto programmatico. Ed è anche il nostro programma.
L’incidentalità stradale nei nostri centri urbani è figlia di politiche sbagliate messe in atto negli anni in cui si andava affermando la motorizzazione di massa. È figlia di scelte amministrative poco lungimiranti che sapevano guardare solo alla crescita economica, ignorando che la qualità della vita è ben altro dall’avere qualche spicciolo di più in tasca. E la crescita richiedeva velocità, e spazio per correre.
Abbiamo visto come è andata. Abbiamo ridotto le città in ammassi informi di lamiera, tristi, squallidi, anonimi. Abbiamo generato sofferenze indicibili in chi ha perso un familiare o un amico a causa della velocità. Non abbiamo avuto il coraggio di confessarlo, ma di fatto le vittime della strada sono state considerate inevitabili effetti collaterali dello sviluppo. Del resto lo sviluppo, la crescita, sono stati fino ad oggi dei totem intoccabili, e chi vi si opponeva era marginalizzato e ghettizzato.
Ma gli scricchiolii sinistri di questo modo di pensare sono oggi evidenti. La crescente congestione urbana dovuta al traffico automobilistico ha reso palese che la promessa di libertà legata all’uso del mezzo a motore era fallace. Ma non è solo questo. È emerso anche che il modello autocentrico delle città tradisce le aspettative di un tessuto fitto, arricchente di relazioni umane che nutre chi scappa dall’Italia interna, da paesi in via di desertificazione. Queste città, le nostre città non mantengono più la promessa che ha fatto la fortuna dei grandi centri urbani in tutto il mondo. Perché senza spazi a misura d’uomo, a misura di bambino, le relazioni si inaridiscono, anche in realtà piccole e medie come quelle della provincia italiana.
Ecco quindi che la conversione ecologica in un tale contesto non è semplicemente qualcosa che obtorto collo va attuata per non soccombere alla crisi climatica, alla sesta estinzione di massa o all’invasione delle microplastiche, e neanche semplicemente una necessità per sfuggire alla morsa dell’inquinamento atmosferico – ragione peraltro che da sola basterebbe ad attuarla seduta stante!
È molto di più. Le comunità che questa conversione l’hanno attuata avvicinandosi al modello utopico di città senz’auto possono raccontarci storie di rinascita urbana, di percorsi sì faticosi e colmi di insidie, ma allo stesso tempo entusiasmanti, perché la trasformazione diventa tangibile e impatta in modo benefico sulla vita quotidiana come non ci si immaginerebbe.
Pensiamo solo al venir meno della molestia uditiva perenne che attanaglia le città. Pensiamo al piacere della riscoperta di incontri inattesi, della chiacchiera da marciapiede che genera sorrisi e avvicina le persone. Pensiamo al benessere che scaturisce dal camminare, ovvero la facoltà primordiale che ha consentito alla nostra specie di diffondersi fino agli angoli più remoti del pianeta a partire dal cuore dell’Africa. Pensiamo alla liberazione da una schiavitù, quella che costringe a sacrificare una parte cospicua del nostro reddito all’acquisto, manutenzione e cura della macchina.
Questi ed altri ancora sono i benefici delle città che sogniamo, godibili oltre che vivibili, portatrici di salute fisica e mentale, attrattive verso tutti, a partire dai più vulnerabili. Città liberate da quegli ingombranti elefanti nella cristalleria – sempre più grandi, sempre più debordanti – che sono diventate le macchine.
C’è un vocabolario nuovo a descrivere le “città trenta e lode”, come sono state chiamate nella storia di copertina del numero di marzo de La Nuova Ecologia, ovvero città in cui il comune denominatore è proprio la riduzione della velocità, che una volta fatta propria dai cittadini può diventare un vero e proprio catalizzatore della trasformazione antropologica sognata da visionari come Alex Langer, un mito della mia giovinezza: ribaltando il celebre motto olimpico, egli auspicava che si dovesse andare non “più veloce, più in alto, più forte!” ma vivere “più lento, più dolce, più profondo” (lentius, profundius, suavius).
In questo vocabolario vi sono acronimi noti e altri con cui dovremmo imparare a familiarizzare: tra i primi c’è ZTL, troppo spesso interpretato dai nostri amministratori in maniera formalistica e non sostanziale, fra i secondi ZEZ (Zero Emission Zone), che ci ricorda come la necessaria trasformazione delle città è tutt’uno con l’obiettivo ineludibile e improcrastinabile dell’azzeramento delle emissioni, traguardo vitale non solo per chi abita le città ma per l’umanità intera.
Gli interventi da mettere in atto per la trasformazione ecologica delle città sono molteplici, ma quasi tutti nascono da un principio guida, che è il riequilibrio degli spazi collettivi: sottrarre progressivamente spazio alle auto per restituirlo da una parte ai pedoni e agli utenti della mobilità leggera, della mobilità condivisa e della micromobilità; e dall’altra al verde, l’unica vera protezione dalle ondate di calore sempre più frequenti e intense che un clima sconvolto dall’uso smodato di benzina e gasolio ci sta già regalando.
Questa direzione di marcia – il riequilibrio dei luoghi della collettività – spazza via tutti i vecchi luoghi comuni che hanno guidato i tentativi di risolvere il problema del traffico assecondando la domanda: più strade, più parcheggi, più rotatorie, più asfalto. Trovo sconcertante ad esempio che nell’acceso dibattito che scuote i frusinati sull’efficacia delle rotatorie e sul perenne ingorgo rappresentato dal nodo De Matthaeis quasi nessuno ricorda che l’ingegneria stradale può poco se le auto che attraversano l’incrocio sono troppe. E che le auto siano troppe a Frosinone non lo dico io, ma le statistiche, che collocano la nostra città al primo posto fra i capoluoghi di provincia italiani in quanto a tasso di motorizzazione privata per abitante.
Riequilibrare gli spazi dunque vuol dire allargare i marciapiedi e restringere le carreggiate, creare zone pedonali in centro e in ogni quartiere, creare le strade scolastiche, cioè quelle in cui è interdetto l’accesso al traffico veicolare in prossimità degli istituti scolastici. Vuol dire inoltre limitare il più possibile la sosta lungo le strade, che è una concausa importante della congestione urbana e dell’inquinamento perché rende più frequenti gli stop-and-go.
Parallelamente agli interventi da realizzare, per i quali chiediamo più coraggio alle amministrazioni comunali, c’è un cambiamento di mentalità necessario su cui occorre far convergere gli sforzi comunicativi di tutti gli attori impegnati nella trasformazione delle città: parlo della multimodalità di spostamento. Se devo andare da A a B non sta scritto da nessuna parte che debba percorrere l’intero tragitto in auto. Posso andare ad esempio da A a C con l’auto e proseguire a piedi fino a B; oppure posso caricare una bici pieghevole nel bagagliaio dell’auto e andare da A a D in auto e da D a B in bici. Questo vale sia per gli spostamenti urbani che per quelli in cui si raggiunge un centro più grande, tipicamente il posto di lavoro, da uno periferico.
E’ il concetto dell’ultimo miglio. Per chi usa le gambe, c’è però un ostacolo reale anche se spesso non considerato che rende oggettivamente poco appetibile questa prospettiva: mi riferisco alle condizioni pietose in cui versano i marciapiedi, e più in generale a uno stato di cose in cui il diritto alla camminabilità è largamente disatteso. Marciapiedi larghi spesso non più di un metro, ingombrati da pali e lampioni, in cui si è costretti a camminare in fila indiana anziché affiancati; marciapiedi rivestiti di asfalto grezzo a rischio di inciampo; marciapiedi senza scivoli; marciapiedi ostruiti da auto in sosta; marciapiedi interrotti per far spazio a proprietà private e alla sosta selvaggia di fronte agli esercizi commerciali; e infine, marciapiedi che non ci sono, situazioni aberranti nate da progetti concepiti e approvati da chi deve aver ritenuto che su certe strade semplicemente i pedoni non sono contemplati. Occorrerebbe allestire una mostra fotografica che documenti i mille modi in cui chi cammina nelle città è ostaggio del predominio delle auto, e forse – la butto lì – come circolo cittadino di Legambiente magari la faremo davvero.
Vedremo se ci sarà la volontà di riequilibrare gli spazi urbani, di ridisegnare le città secondo i principi dell’urbanistica green. Da parte nostra c’è il desiderio di stipulare alleanze, creare sinergie per proiettare le città verso un futuro desiderabile per tutti.